Si scrive Next generation EU, si legge futuro

Ventitré. Sono tante le volte che la parola futuro (declinata in futura, futuri, future) compare nel Piano per la ripresa e la resilienza (Pnrr) del nostro Paese. Ed è questa una delle maggiori differenze che passa, in termini di strategia e visione, tra la prima bozza del piano italiano e la versione che il Consiglio dei ministri ha approvato lo scorso martedì. Non è solo una questione stilistica o di parole: è la differenza semantica che passa tra Recovery fund e Next generation EU, tra responsabili e costruttori, tra gestione e visione.

Ciò non equivale a dire che tutte le criticità della versione iniziale siano state risolte, ma evidenzia come la cultura riformista del centrosinistra abbia permesso di passare dal rischio di un approccio assistenzialista, basato fondamentalmente su incentivi e bonus, a un approccio strategico costruttivo in cui giovani, lavoro, istruzione, transizione ambientale e digitalizzazione diventano centrali per ridurre disuguaglianze di genere, generazionali e territoriali.

È uno scarto di prospettiva che, unito a un organismo che autorevolmente coordini in modo puntuale le fasi di attuazione e realizzazione dei singoli progetti – sul modello, ad esempio, del super Cipe proposto da Romano Prodi –, potrà garantire al nostro Paese di non disperdere le grandi opportunità che un’Europa, finalmente sociale e solidale, mette a nostra disposizione.

La crisi politica rischia di compromettere questa credibilità. Per questo, al di là delle alchimie e dei pallottolieri, è prioritario governare questa delicata fase.

Tanto si è detto sui numeri del piano Next generation EU, sia a livello europeo sia a livello nazionale. Se la dimensione assoluta è importante per definire obiettivi e progetti specifici, solo un raffronto relativo può consentirci di tracciare l’impatto a medio e lungo termine di un impiego strategico delle risorse del Piano.

I 209 miliardi che Next generation EU destina al nostro Paese corrispondono, come osserva su Limes Roberto Carpano, a:

  • più di 18 Piani Marshall concessi dal Congresso degli Usa all’Italia nel periodo 1948 – 1951. Il Piano valeva per l’Italia 1,2 miliardi di dollari, equivalenti oggi a 12,5 miliardi di dollari, pari a 11,25 miliardi di euro
  • 5,5 volte i Fondi strutturali e di investimento europei per la programmazione 2021 – 2027
  • un po’ più dell’evasione fiscale italiana annua (1,08 volte). Nella penisola, ogni anno i mancati pagamenti dovuti al fisco ammontano a 190,9 miliardi di euro l’anno.

Perché è così importante il confronto con il Piano Marshall? Perché non solo il Piano Marchal fu il presupposto per il boom economico degli anni successivi, ma consentì all’Italia di modernizzare il suo assetto economico e sociale. Un programma che equivale a 18 volte il Piano Marshall, in un contesto già caratterizzato da una forte integrazione orizzontale e verticale e da una digitalizzazione che diventa sempre più spinta, dovrebbe permettere di dare una forte accelerazione alla nostra economia.

Per questo, accanto ai singoli progetti, dobbiamo lavorare alla riforma della pubblica amministrazione e della giustizia e a interventi che favoriscano la concorrenza, operando in stretta sinergia con le Regioni e gli enti locali che costituiscono il trait d’union tra strategia ed esigenze dei territori.

Secondo una recente indagine Istat in Italia la diseguaglianza, già forte prima del Covid, aumenta. Per la prima volta l’ascensore sociale funziona al contrario: tra le nuove generazioni (i nati tra il 1972 e il 1986) le persone che si muovono verso classi inferiori a quella d’origine sono di più (il 26,2%) di quelle che si muovono verso classi superiori (24,9%). Finora era stato il contrario. Non solo, a essere più colpiti dagli effetti recessivi della crisi economica seguita alla pandemia sono donne e giovani.

E proprio quest’ultimi costituiscono, insieme al riequilibrio territoriale, due delle tre priorità trasversali del piano, necessarie per costruire insieme un Paese giusto e solidale. Perché la sostenibilità economica di un sistema Paese non passa solo da una più che sacrosanta transizione ambientale, ma anche dal riequilibrio di quelle disuguaglianze che ne rallentano la crescita e il benessere diffuso.

Ecco perché non bastano i pur necessari bonus per colmare quel divario strutturale nella partecipazione al mondo del lavoro delle donne che separa l’Italia dal resto dei paesi europei. Servono infrastrutture sociali (asili nido, servizi per anziani e disabili) per le quali nel nuovo Pnrr sono previsti 7,15 miliardi, così come ci sono previste più risorse sullo 0-6 e sul tempo pieno. Stesso stanziamento è previsto per le politiche attive del lavoro, la cui destinazione dovrà essere frutto di una vera concertazione con sindacati e rappresentanti del mondo produttivo.

Stanziare il 70% delle risorse in investimenti permetterà, inoltre, di ripensare il territorio, di rafforzarne infrastrutture e dorsali di comunicazione, in una vera integrazione tra digitale e fisico, tra logistica, interoperabilità e comunicazione, in stretta sinergia con quell’economia circolare su cui sono disponibili più di 20 miliardi.

È in questo solco che non si può trascurare il ruolo e l’apporto di sindaci e governatori, perché la sfida è portare il Piano tra le persone, renderle partecipi di un processo di cambiamento della quotidianità. Solo se il nostro apporto arriverà fin lì, potremo dire di aver risposto alla sfida.

*di Pier Paolo Baretta, Sottosegretario al Ministero dell’Economia e delle Finanze