Il diritto alla salute prima di tutto, garantito dal sistema sanitario pubblico. ALI in piazza con la Cgil altre 90 associazioni

Promesse tradite: il servizio sanitario, che ha tenuto nonostante le sue fragilità per fronteggiare la tragedia della pandemia, avrebbe dovuto essere rafforzato. Invece, finita l’emergenza-Covid, la salute pubblica non è più una priorità. In aprile il governo ha annunciato che la spesa sanitaria è in discesa, dal 6,6% del Pil al 6,3 nel 2024. Invece marciano le privatizzazioni. Non si fanno assunzioni stabili di medici e infermieri, avanti con le imprese esterne di servizi, che forniscono il personale, spesso con contratti penalizzanti. Tant’è che molti medici e giovani già formati vanno a lavorare in Europa. Faticano ospedali e strutture a tornare alla normalità, a esaurire le chilometriche liste di attesa che favoriscono i servizi privati e a pagamento. E il modello Lombardia, che pure tanto carente si è mostrato durante la pandemia, riprende a far scuola. È contro questo sistema che un vasto schieramento di forze – novantatré, fra sindacati e associazioni –, coordinato per iniziativa della Cgil, è sceso in piazza il 24 giugno scorso con l’Assemblea per la Costituzione. Per chiedere un piano straordinario di assunzioni che superi la precarietà di chi cura, per garantire la salute delle persone non autosufficienti, per ribadire la necessità di un piano per la sicurezza sul lavoro, a cominciare dall’incremento dei servizi ispettivi sul campo. ALI è stata fra le promotrici della mobilitazione in un percorso, quello di «Insieme per la Costituzione», che il 30 settembre vedrà un altro momento molto importante di presenza, con un’altra e più grande manifestazione nazionale, per dire no al disegno di legge del governo per l’autonomia differenziata.

ALI ha aderito convintamente alla manifestazione e il presidente Matteo Ricci, sindaco di Pesaro, ha parlato dal palco in rappresentanza dell’associazione e della delegazione di sindaci. Ricci ha denunciato la deriva pericolosa dovuta agli arretramenti e agli azzardi del governo Meloni: «Oggi siamo all’alba di un progetto politico, l’autonomia differenziata, che vuole definitivamente dividere il nostro paese, creando cittadini di serie a e cittadini di serie b. Questo è stato certificato anche in sede parlamentare, nelle audizioni che si stanno tenendo in commissione Affari costituzionali del Senato, da parte di tantissimi istituti, associazioni, esperti e docenti, financo dallo stesso Ufficio bilancio del Senato. Sarebbe una riforma devastante per l’Italia. Contro la Costituzione innanzitutto, contro l’unità, l’uguaglianza, la sanità, la scuola, il lavoro». 

«Uno dei capisaldi della Costituzione è l’art. 32 che stabilisce la salute e la cura come un fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività – ha aggiunto il presidente di ALI citando testualmente l’articolo – il sistema sanitario nazionale da molti anni è in gravi difficoltà e temiamo che nei prossimi anni possa essere ulteriormente massacrato da tagli a risorse e personale. Questo è un rischio per il Paese. Lo Stato non può e non deve creare divisioni tra cittadini e territori, per questo noi sindaci siamo molto preoccupati da quello che sta accadendo». 

Le statistiche parlano chiaro. Secondo il Rapporto 2022 di Cittadinanzattiva, nel sistema sanitario pubblico è necessario attendere 720 giorni per una mammografia, 375 per un’ecografia, un anno per una TAC, 6 mesi per una risonanza magnetica. Per visite diabetologiche, dermatologiche o reumatologiche non si scende sotto i 10 mesi. Non va meglio per gli interventi chirurgici: in cardiologia e ortopedia bisogna attendere almeno un anno. Fino a 6 mesi per un intervento oncologico.

Secondo l’ISTAT, nel 2020, il 7% della popolazione ha rinunciato a prestazioni sanitarie necessarie perché ritenute troppo costose o per liste di attesa troppo lunghe. Un fenomeno che riguarda quattro milioni di persone.  Nel 2021 i cittadini italiani hanno speso 41 mld di euro per curarsi, erodendo salari e pensioni. 623 euro pro-capite con enormi diseguaglianze territoriali.

Nel decennio 2010-2019 solo 5 regioni hanno superato l’85% degli adempimenti dei LEA, i livelli essenziali di assistenza. Si tratta di Emilia-Romagna, Toscana, Veneto, Piemonte e Lombardia. Nel 2019 Basilicata, Calabria, Campania, Molise, provincia autonoma di Bolzano, Sicilia e Valle d’Aosta non hanno raggiunto gli adempimenti.

Nel 2020, nonostante la pandemia, le giornate di degenza di pazienti ricoverati in ospedale in una regione diversa dalla propria sono state 351 mila. Nel 2019 se ne erano contate quasi mezzo milione. Negli ultimi 10 anni, le regioni del Mezzogiorno hanno versato 14 miliardi di euro a quelle del Nord per far curare i propri cittadini, perdendo importanti risorse per il proprio sviluppo. A beneficiarne soprattutto Lombardia, Emilia-Romagna, Toscana e Veneto. Ne consegue l’immagine di un Paese spaccato in due che tradisce i principi di universalità, equità, uguaglianza fondanti del Sistema Sanitario Nazionale.

Le diseguaglianze nell’accesso ai servizi incidono sull’aspettativa di vita alla nascita con un inaccettabile gap di 3 anni tra la provincia di Trento e la Campania. Criticità già oggi gravi e insopportabili, destinate ad aggravarsi nel caso in cui si concretizzi il progetto di autonomia differenziata. 

La posta in gioco è molto alta e riguarda la sopravvivenza del Servizio sanitario nazionale e il diritto alla salute per tutti. Da tempo assistiamo a un lento ma costante impoverimento della sanità pubblica ma il rischio del collasso è ormai tangibile e i cittadini lo sperimentano quotidianamente: nei lunghi tempi d’attesa, nella povertà dei servizi territoriali essenziali, nella drammatica carenza di medici, infermieri e personale assistenziale.

Conosciamo le cause di questa deriva: anni di sotto finanziamento e di mancati investimenti, blocco delle assunzioni, esternalizzazione di servizi e prestazioni, cedimenti via via sempre più significativi alle logiche del mercato. Abbiamo pensato che la pandemia restituisse forza all’idea della salute come bene comune e centralità alla cura e alle politiche di welfare. Purtroppo sta avvenendo il contrario. La destra al governo, con i primi tagli programmati, prepara il colpo di grazia al sistema pubblico.

Gli interventi adottati, dalla Legge di bilancio all’attuazione del Pnrr, al progetto di Autonomia differenziata, prevedono una ulteriore riduzione delle risorse per garantire il diritto alla salute, nessun cambio di rotta sulla formazione e il reclutamento dei professionisti che stanno infatti abbandonando il sistema pubblico. Un regionalismo esasperato e mal governato ha prodotto la frammentazione del sistema in differenti modelli organizzativi spesso in contrasto con i principi del Servizio sanitario nazionale, con il risultato di aumentare le diseguaglianze tra i cittadini.

Regionalizzare ulteriormente la sanità significherebbe uscire dal solco della Costituzione, sarebbe un arretramento radicale oltre che una controriforma incostituzionale. Sarebbe negato in radice l’esercizio del diritto alla salute e alla cura in modo uniforme su tutto il territorio nazionale, si costituzionalizzerebbe un divario molto aggravato. Si realizzerebbe un doppio regime fra quello nazionale e quello regionale: innanzitutto le regioni che potranno trattenere più gettito fiscale si potrebbero trovare nelle condizioni di offrire ulteriori prestazioni aggiuntive ai propri cittadini rispetto ad altre regioni; poi, potendo trattenere le regioni più gettito a livello locale, arriverebbero meno risorse a livello centrale e a quel punto non si potrà più neppure garantire lo stesso livello di prestazioni essenziali offerte oggi sull’intero territorio nazionale. Si spaccherebbe l’Italia: tra Nord e Sud, ricchi e poveri, chi già ha molto avrà di più e chi oggi ha meno avrà di meno in futuro. Se la salute oggi non è più un diritto costituzionalmente garantito, come ci chiede l’articolo 32, la responsabilità non è di una vecchia Carta costituzionale che ha fatto il suo tempo, ma di una politica nazionale e regionale che ha progressivamente abdicato alle sue responsabilità.
Si può ancora invertire la rotta. Ma per farlo occorre dire con chiarezza che la salute è un bene comune e per tutelarla non ci si può affidare alle assicurazioni che forniscono le prestazioni in base al premio pagato e si limitano a rimborsare la malattia.

È una battaglia d’importanza essenziale per le autonomie locali, per i sindaci, per chi deve difendere i diritti delle comunità, gli interessi fondamentali dei cittadini, a partire dai più esposti. Serve un Sistema sanitario nazionale organizzato come un bene comune, finanziato in modo adeguato, coerente con i principi di solidarietà e appropriatezza dei sistemi universalistici. Serve una grande alleanza per salvaguardare il diritto alla salute per tutti e quel patrimonio di civiltà rappresentato da Servizio sanitario nazionale, una conquista irrinunciabile, oggi messa in discussione. Nessuno pensi di potersi salvare da solo, né i professionisti che scappano nel privato né chi pensa che sia sufficiente una copertura assicurativa. Servono una consapevolezza e una risposta collettive: quella molto ben riuscita di «Insieme per la Costituzione» è stata solo un primo passo.

*di Marco Filippeschi, Direttore dell’Ufficio studi e progetti di ALI