A gennaio è ripartita la corsa del governo per approvare, il prima possibile, il disegno di legge Calderoli sull’autonomia differenziata. Una prova di forza che ha innescato l’immediata la risposta del Paese. Il 16 gennaio in tante piazze d’Italia si è manifestato contro questa riforma, si è organizzata (o riorganizzata) immediatamente una rete molto interessante e corposa che rappresenta una spinta trasversale all’unità del Paese, contro una riforma che mira a spaccarlo. Nella lotta contro il disegno di legge leghista ci sono in prima fila i Comuni italiani e alcune Regioni, il sistema degli enti locali, ma non sono soli. Uniti nell’opposizione a questo progetto vediamo studiosi e intellettuali, istituti di ricerca, fondazioni, sindacati, forze politiche, cittadini.
Dati importanti, studi e ricerche scientifiche evidenziano tutti la stessa cosa: è una riforma che spaccherà l’Italia, piena di contraddizioni, e che andrà a discapito dei cittadini. Partiamo dalla Costituzione, la madre di tutte le leggi. Il Titolo V, pur con i suoi limiti, è molto chiaro nel prescrivere che prima di procedere ad attuare qualsiasi tipo di differenziazione vanno garantiti in tutto il territorio nazionale i livelli essenziali delle prestazioni. Prima i diritti, uguali per tutti, poi le autonomie differenziate. Prima dunque vanno rimosse quelle disuguaglianze strutturali agli accessi alle prestazioni (sanitarie, sociali, etc) garantendo uguali diritti ai cittadini poi è possibile pensare di fare qualcosa in materia di autonomia.
In un Paese già fortemente diviso, ormai in sempre più materie e aree, tra Nord e Sud, centro e periferie, coste e aree interne, piccoli e grandi Comuni, come è solo pensabile di proporre o imporre una secessione? Se al Sud ci sono problemi di maggiore disoccupazione che nel resto dell’Italia, meno asili nido, meno ospedali e carenti strutture sanitarie, meno infrastrutture, meno trasporti pubblici, la risposta di un governo non può essere la secessione.
Svimez in un suo recentissimo studio ha lanciato l’allarme sullo spopolamento del Sud – nel 2080 ci saranno 8 milioni di residenti in meno, una quantità enorme – e la Fondazione Gimbe ha pubblicato una ricerca sulla mobilità sanitaria interregionale che vale la pena considerare attentamente, perché basta sommare alcuni semplici dati e l’autonomia differenziata si trasforma in un cocktail esplosivo per il nostro Paese.
Ci sono materie importantissime che non possono essere gestite dalle Regioni. Nel 2021 la mobilità sanitaria interregionale in Italia ha raggiunto un valore di € 4,25 miliardi, l’anno precedente era di 3,33 miliardi), con saldi estremamente variabili tra le Regioni del Nord e quelle del Sud. Il saldo è la differenza tra la mobilità attiva (l’attrazione di pazienti provenienti da altre Regioni) e quella passiva (la migrazione dei pazienti dalla Regione di residenza). Le Regioni Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto raccolgono il 93,3% del saldo attivo, mentre il 76,9% del saldo passivo si concentra in Calabria, Campania, Sicilia, Lazio, Puglia e Abruzzo. Questi dati riflettono le grandi diseguaglianze nell’offerta di servizi sanitari tra le varie Regioni. L’autonomia differenziata in sanità legittimerà normativamente questo divario tra Nord e Sud, andando contro l’esigibilità del diritto costituzionale alla tutela della salute. Per questo anche Cartabellotta ha sottolineato che “la tutela della salute deve essere espunta dalle materie su cui le Regioni possono richiedere maggiori autonomie”.
L’Italia non ha bisogno di essere spaccata in due, ha bisogno di essere piuttosto ricucita.
I sindaci che amministrano nel Mezzogiorno sanno quanto sia difficile garantire quello che chiedono i cittadini e ciò che servirebbe alle future generazioni in un contesto di totale difficoltà socio-economica e di gravi carenze amministrative. Con il regionalismo spinto non si creerebbe una maggiore efficienza, come continua a dire il ministro Calderoli per giustificare la sua proposta, ma si determinerebbe invece un peggioramento delle condizioni dei Comuni del sud Italia. I sindaci che hanno manifestato nelle piazze hanno ricordato che “la proposta di revisione del Pnrr ottenuta dal ministro Raffaele Fitto colpirà soprattutto le regioni del Sud, che subiranno un taglio di 7,6 miliardi, la metà dei 15,9 che si prevede di ridurre. Per non parlare dell’eliminazione delle Zes e dei 4,4 miliardi distratti dal fondo perequativo infrastrutturale in una nazione che sul piano delle ferrovie e delle strade è letteralmente tagliata in due, l’alta velocità al Nord, la grande lentezza al Sud”. L’autonomia differenziata rappresenterebbe il colpo di grazia.
In questi ultimi giorni è arrivato l’emendamento di FdI che modifica (e smaschera) l’originale impianto leghista della riforma, ancora buona forse per fini propagandistici ed elettorali ma nei fatti indebolita. Una scatola vuota, uno specchietto per le allodole. Un gran pasticcio. In sintesi, è stato fissato un principio elementare: per ogni euro in più dato alle Regioni che decideranno di gestire in proprio una delle materie che possono essere devolute dovranno essere trasferito lo stesso importo anche ai Governatori che lasceranno le cose come sono oggi, amministrate cioè a livello centrale. Questo significa che l’autonomia differenziata, per come le cose si stanno mettendo le cose, o potrebbe costare una montagna di denaro alle casse dello Stato, visto che è stato anche approvato che l’operazione dovrà avvenire a invarianza di gettito, o sarà una riforma inutile che apre la strada a singole intese tra una Regione e lo Stato su singole materie. Il nodo del problema sono i Livelli essenziali delle prestazioni. Ad oggi non c’è un euro stanziato per tutto questo processo di riforma.
Occorre ricordare, per capire a che punto siamo, che nella Legge di Bilancio 2021 fu appostato un Fondo di perequazione di 4,6 miliardi che permetteva la perequazione delle infrastrutture, mano a mano che venivano definiti i Lep. Nel 2020 nella Conferenza unificata Stato-Regioni ci fu accordo tra i Governatori e lo Stato centrale. L’obiettivo sul tavolo era portare il Fondo a 50 miliardi e accompagnare nel decennio, con le risorse messe prima (non dopo), il lavoro sui Lep. Che sono alla base come ricorda la Costituzione per garantire uguali diritti e unità del Paese.
Finché non vengono messe sul tavolo le risorse necessarie per garantire i Lep è chiaro che stiamo parlando di una riforma scritta in malafede, sostenuta a forza con l’obiettivo di portare a casa qualcosa di inutile o dannoso ma buono da sventolare in campagna elettorale; che si vuole arrivare a firmare, da parte di alcuni Governatori, intese con lo Stato per spendere le risorse disponibili lasciando la restante parte del Paese, il Sud, nella condizione di non poter più perequare. Prevedo per quei Governatori non pochi problemi nel loro territorio se le cose andranno in questa direzione: quando lo Stato non governa la nazione nell’unità, dove ci sono risorse ci si azzufferà per spenderle. I Lep messi da parte, il Fondo di perequazione svuotato, il Paese spaccato. Chi ha a cuore l’Italia e il dettato costituzionale non lo permetterà, se il Governo non si fermerà siamo pronti un minuto dopo l’approvazione di questa Legge spacca-Italia a proporre ai cittadini e sostenere un Referendum per abolirla: da una parte chi spacca l’Italia, dall’altra chi la vuole unita e si batte per l’unità.