Collaborare tra comuni o fondersi?

Il territorio nazionale è un territorio fortemente diversificato e frammentato. I comuni italiani sono quasi 8.000 di cui quasi il 70% inferiori ai 5.000 abitanti. Le dimensioni demografiche molto spesso sono accompagnate anche da dimensioni strutturali deboli: occorre non dimenticare infatti che le norme vigenti assegnano a tutte le municipalità, che abbiano uno o centinaia di dipendenti, lo stesso tipo di funzioni. Il Comune di Roma e quello di Morterone, 31 abitanti in provincia di Lecco, devono erogare ai propri cittadini gli stessi servizi, da quelli sociali a quelli tecnici, demografici, di sicurezza, gestione dei rifiuti, tributi ecc. 

Ogni municipalità ha poi delle proprie prerogative gestionali in termini di tassazione, limiti di velocità sulle strade, regolamenti edilizi, urbanistici, di contabilità, di accesso ai servizi pubblici essenziali. La nostra bella Italia è quindi un coacervo di quasi 8.000 italie diverse, con tutti i rischi connessi a una fortissima differenziazione: quella che però potrebbe sembrare una ricchezza in realtà potrebbe rappresentare un grave fattore di debolezza per il sistema paese.

Diversi governi hanno provato a porre un correttivo a questa situazione spingendo i municipi a forme, più o meno spinte, di cooperazione. Negli anni sono stati istituiti ad esempio, per la gestione di servizi pubblici essenziali come rifiuti e servizio idrico, gli Ambiti Territoriali Ottimali, che obbligano i rappresentanti dei comuni a cooperare nell’interesse della buona gestione di funzioni tipicamente sovraterritoriali o di sistema. Le stesse Aziende sanitarie sorte dall’evoluzione delle Unità sanitarie locali, hanno visto forme di collaborazione funzionali nella programmazione dei servizi socio sanitari sul territorio (le conferenze dei sindaci). Meno positive sembrano, invece, le forme di funzioni associate attraverso convenzioni o unioni dei comuni. Pur osservando alcune azioni che caratterizzano territori virtuosi (come ad esempio in Emilia Romagna), in molti casi queste associazioni sembrano più legate alla necessità di rispettare le norme che alla reale capacità di capire i vantaggi di gestire servizi in forme più strutturate. Le convenzioni di servizi, ad esempio, vengono spesso modificate, cambiate o sciolte, mentre in fortissima crisi pare anche l’istituto dell’unione, che paga i limiti di creazione di sovrastrutture che duplicano i livelli istituzionali (alle giunte e ai consigli comunali si affiancano anche le giunte e i consigli dell’unione, con decisioni importanti che vanno spesso ratificate nei due organi corrispondenti) oltre che l’impossibilità di strutturare apparati dirigenziali e direttivi all’altezza della situazione, anche in virtù dei limiti imposti dalla legge Delrio. Ecco quindi che il legislatore punta a incentivare forme di collaborazione spinta, legata alle fusioni dei comuni, favorendo un largo afflusso di fondi aggiuntivi che rendono più appetibili i percorsi.

Ma anche in questo caso, un percorso di fusione non può limitarsi esclusivamente a vantaggi di tipo economico, ma vanno colti con chiarezza (e in questo gli amministratori non sempre sono concordi o entusiasti) i vantaggi di organizzazioni più strutturate e solide, sfide amministrative che andrebbero vissute con la consapevolezza di aumentare la qualità dei servizi ai cittadini. Anche in questo caso, però, le leggi regionali non sempre sono univoche o finalizzate a favorire questi percorsi e i referendum per le fusioni (con o senza quorum) sono un vulnus spesso destinato a far fallire aggregazioni necessarie.

Sarebbe fondamentale aprire un dibattito sui livelli istituzionali dello stato e sulle prospettive del sistema paese, anche se l’argomento ha aspetti tecnici non sempre facili da calare nelle realtà territoriali. Ma forse anche dalla riduzione del numero dei comuni potrebbe passare la prospettiva di un paese più solido, forte e coeso.

*di Leonardo Raito, Sindaco di Polesella e Vice Presidente Ali Veneto