
Riprendo il filo delle mie riflessioni condivise con voi, amici cari di Ali, ripartendo da quanto vi dicevo nelle ultime settimane del 2024, quando – come paventavo prima dell’appuntamento elettorale statunitense – abbiamo visto la vittoria sì del fronte conservatore ma, attenzione, di stampo populista, non certo moderato e tradizionalista, con l’elezione del 48esimo Presidente degli Stati Uniti d’America, Donald Trump. Fu allora che scrissi, su queste stesse colonne che stavamo correndo un grosso rischio, come italiani e come europei: il rischio del declino sullo scenario internazionale.
Torno a quei momenti perché, con una certa rapidità, stiamo rotolando esattamente lungo quel percorso, così come temevo: una crisi di sistema che è tanto delle istituzioni democratiche, quanto della tenuta economica europea e, per quel che ci riguarda più da vicino, italiana. Tout se tient: un’Unione Europea fragile e frammentata – esattamente come la desidera Donald Trump – incapace, da un lato, di essere propositiva negli scenari di guerra, portando pace e democrazia, i valori fondanti della nostra comunità, e dall’altro di essere competitiva dinanzi al gigante Usa e al dragone cinese, è lo scenario ideale nel quale si muove un’Italia altrettanto debole.
“Il Pil non cresce, l’Italia si è fermata”: leggevo, giorni fa, l’ottima analisi dell’economista Carlo Cottarelli, pubblicata dal quotidiano “la Repubblica”. Cottarelli, giustamente, notava l’innegabilità di quanto attestano i più recenti dati ISTAT: l’economia del Paese si è fermata, nonostante le attese del Governo Meloni, che prevedeva una crescita dell’1,2% del nostro Pil, una cifra sulla quale ha basato i calcoli sottesi alla Legge di Bilancio, ma anche una cifra sconfessata dalla realtà. I numeri non mentono: siamo fermi su uno 0,5%, meno della metà di quanto previsto dal Ministero dell’Economia guidato da Giancarlo Giorgetti. E nell’ultimo trimestre del 2024 non ci siamo schiodati da quella cifra. Nel contesto di un’eurozona non messa benissimo, fa notare Cottarelli, se guardiamo agli ultimi due trimestri, l’Italia è indietro anche rispetto alla media dell’eurozona.
Ma credo di dirvi cose che voi, amici amministratori locali, avete sotto gli occhi ogni giorno. Voi siete l’avanguardia delle istituzioni sui territori, lo so bene, ero fra voi fino a pochi mesi fa. Se il Paese non cresce, sono i sindaci a rendersene conto per primi: vi basta passeggiare per le strade delle città che guidate, per accorgervi che l’economia è stagnante. Diciamola tutta: senza il PNRR saremmo già in recessione. La messa a terra dei progetti del Piano – con quel che ne consegue proprio sul piano dei territori, dalla ricerca di personale specializzato alla cantierizzazione di opere pubbliche – sta sostenendo la nostra economia che una Legge di Bilancio debole non è in grado di far crescere.
Non a caso, assistiamo ad un boom dei numeri della cassa integrazione, entro uno scenario in cui i dati sull’occupazione non sono affatto buoni: il numero degli occupati ha smesso di crescere e negli ultimi quattro mesi del 2024 abbiamo perso 1.500 posti di lavoro al mese. L’Osservatorio Inps sulle ore autorizzate di cassa integrazione (ordinaria, straordinaria e in deroga) nel 2024, pubblicato di recente, fornisce dati allarmanti. Nell’operosa Emilia Romagna siamo a 60,5 milioni di ore di Cig (Cigo-Cigs-Cigd), in aumento del 54,7% rispetto ai 39 milioni di ore autorizzate nel 2023. Si tratta dei dati più elevati dalla fine dell’emergenza Covid. Dati che si inseriscono in uno scenario nazionale a dir poco allarmante: in Italia nel 2024 sono state autorizzate 495.518.268 ore di cassa integrazione, in aumento rispetto al 2023 (+21,1%) e al 2022 (+5,8%). Le cronache locali dei nostri quotidiani testimoniano l’aggravarsi di questo trend. Leggo che nella provincia di Como, dopo gli anni del Superbonus, il settore edilizio vede un aumento del 95,5% nel ricorso agli ammortizzatori sociali. Nelle “mie” Marche, la Cig (ordinaria, straordinaria e in deroga) si attesta a circa 23,2 milioni di ore (+7 milioni sul 2023, +44,9%, una crescita superiore rispetto al dato nazionale 21,1% e dell’Italia centrale 12,1%), mentre il ricorso a Fis e altri fondi arriva a poco più di 270mila ore. L’industria è il comparto in maggiore sofferenza: in Piemonte assistiamo ad un +62%, un dato figlio della crisi dell’automotive.
Questi i numeri, che non mentono nel fotografare un Paese in sofferenza. Quali le risposte, dunque, da dare con urgenza? Ritengo necessario formulare, a livello europeo, un nuovo piano Next Generation EU, che sia strutturale e non più legato a momenti emergenziali – come avvenuto durante gli anni della pandemia – e che sia finanziato con debito comune. Come sottolineavo poc’anzi, solo il PNRR ci sta salvando dalla recessione: questo ci dice che un piano di investimenti pubblici europei, sulla scia di quanto attestato dal report sulla competitività formulato da Mario Draghi e dallo studio presentato da Enrico Letta alle istituzioni europee, potrebbe essere ossigeno vitale per l’economia dell’Unione. La presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen ha presentato, nei giorni scorsi, il Competitiveness Compass, la bussola della competitività europea, una road map, nelle intenzioni, basata proprio sulle raccomandazioni di Mario Draghi. Tuttavia, vedo ancora molta confusione relativa al fondo di competitività, nella bussola presentata da Ursula von Der Leyen. Non si capisce perché si tentenna, ancora, nel fare debito comune europeo, per finanziare un grande piano di investimenti pubblici. Senza un simile piano, non saremo in grado di sostenere la crescita, rischieremo la recessione e, nel contempo, avremo la questione sociale contro le politiche ambientali, perché dinanzi al crescente disagio sociale non sarà semplice far comprendere l’estrema necessità di politiche di sostenibilità per i nostri territori, politiche i cui costi andranno a preoccupare le fasce più deboli della popolazione.
Se non invertiamo la rotta, a partire, come fatto notare anche da Carlo Cottarelli, dalla necessità di muoverci, a livello europeo, in modo più unitario, lungo un tragitto federale, non riusciremo a recuperare competitività nello scenario globale, finendo schiacciati dai colossi americano e cinese. Il rischio irrilevanza – che, lo ripeto, è anche sul piano della politica estera, nel contesto dei fronti di guerra ancora aperti e sanguinanti – è dietro l’angolo. L’Europa smetta, al più presto, di balbettare.
Di Matteo Ricci, direttore di Governare il Territorio, Europarlamentare.